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Claudio Kulesko. Invocare la morte su di sé. Inattualità e inutilità del pessimismo speculativo

Posted on 2020/10/25 by CDLFelix

Questa risposta di Claudio Kulesko al nostro articolo “Alcune note su estinzionismo e dintorni” è pubblicata su Liberazioni – Rivista di critica antispecista Anno XI / n. 42 / Settembre 2020 http://www.liberazioni.eu/liberazioni-n-42/  disponibile in consultazione e distribuzione presso la nostra sede.

Claudio Kulesko

Invocare la morte su di sé. Inattualità e inutilità del pessimismo speculativo.

Per un viscido ammasso di carbonio, intrappolato su una roccia che vortica nel bel mezzo di un’insignificante galassia, lontana anni luce da qualsiasi altro punto dell’universo, esser riuscito a sviluppare tecnologie in grado di inviare nello spazio radiotelescopi capaci di rilevare l’età dell’universo, è una conquista che ha del prodigioso.

Roy Scranton, Learning to Die in the Anthropocene

Davvero niente male per un’escrescenza di collagene! Ma credevate davvero che ciò sarebbe basato a placare la furia della Terra? È questo sardonico interrogativo a rendere Roy Scranton un profeta di sventura. Il suo bestseller, Learning to Die in the Anthropocene, non è che una eco, cupa e mutila, dell’invito di Donna Haraway a imparare a vivere e morire in tempi difficili ‒ costruendo e coltivando relazioni complesse, ricche e interspecifiche1. A dirla tutta, Scranton non si limita a precognizzare una terribile sventura, egli la invoca, la brama, spianando la strada all’avvento della catastrofe climatica che si sta per abbattere sull’intera biosfera planetaria. Il suo è un incoraggiamento a non far nulla, a non intervenire, a lasciarsi travolgere. Tutto quel che è accaduto negli ultimi 13 miliardi di anni è accaduto esattamente così come doveva accadere. Non un singolo atomo fuori posto, non un singolo muone in difetto. Nulla è andato storto. Non vi è stato il benché minimo sbaglio. Nessun peccato originale, nessun errore, nessuna caduta. Tutto quel che è stato, è stato necessariamente2.

È evidente. Il “fatalismo climatico” flirta con il business-as-usual proprio nel medesimo istante in cui denuncia gli orrori della catastrofe ambientale. È questa segreta complicità a rendere Scranton una voce pericolosa per i movimenti ambientalisti e antispecisti. Le motivazioni che autori, quali Scranton, Franzen e Kingsnorth, adducono a sostegno dell’ipotesi dell’irreversibilità e dell’inevitabilità della catastrofe sono molte e di diversa natura. Eccone alcune: la catastrofe climatica è già oltre la soglia di intervento, d’ora in avanti solo l’abisso ci attende; una vera azione collettiva, rivoluzionaria, di portata globale, non sarà mai davvero possibile; il greenwashing renderà ogni concreto processo di emancipazione impraticabile, o persino non auspicabile, agli occhi della maggioranza della popolazione; ogni forma di resistenza pacifica non sarà dotata della necessaria incisività; ogni forma di resistenza violenta sarà schiacciata dal potere; le energie rinnovabili non sono che un ingenuo palliativo; l umano è intrinsecamente prevaricatore (come testimonierebbe, ad esempio, l’estinzione della magafauna in Nord America e Nuova Zelanda). Un elenco, più o meno esaustivo, delle scuse, anzi, degli alibi offerti da questa categoria di pensatori.

Un sacco di roba della quale potersi lamentare, tanto in pubblico quanto tra sé e sé. Assumere un simile atteggiamento, in fondo, equivarrebbe a prendere attivamente parte a una profezia autoavverantesi: tutto è accaduto solo perché abbiamo scelto di non far nulla. L’azione politica ‒ la vera e genuina azione politica ‒ si fonda su un incrollabile principio di speranza e sullo slancio vitale. Essa è, pertanto, totalmente incompatibile con l’abbandono, con la rassegnazione, con l’inazione e la disperazione. Innumerevoli corpi martoriati, di ogni specie e genere, gridano vendetta, invocando il sacro furore dell’azione politica radicale. Tuttavia, a ben vedere, c’è qualcuno in grado di smentire, oltre ogni ragionevole dubbio, l’argomento determinista? Vi è davvero, da qualche parte del globo, qualcuno in grado di illuminarci sui fondamenti del libero arbitrio o, ancora, di negare o affermare una proposizione certa a riguardo della natura umana? La rivoluzione, la rivolta totale, l’abolizione dell’energia fossile, degli allevamenti intensivi sono davvero a portata di mano? Siamo certi che, dietro l’angolo, non ci attenda altro che un massacro senza precedenti?

L’atteggiamento fatalista e quello nichilista non fanno altro che insinuare dubbi, facendo proliferare le (im)possibilità e le negazioni, paralizzando l’azione fino all’atrofia. «Non c’è più nulla da fare». «È la fine». «Siamo condannati». Tali atteggiamenti ‒ al tempo stesso morali, etici, metafisici ed epistemici ‒ confluiscono all’interno di una singola posizione filosofica: il pessimismo (quel grande “carattere” che, com’è noto, contraddistinse autori quali Schopenhauer, Leopardi e Unamuno). Come ha affermato lo scrittore horror-weird Thomas Ligotti, tra pessimismo e ottimismo si frappone un abisso gnoseologico dai tratti semi-umoristici: per l’ottimista, il mondo è perfettibile e la sofferenza estirpabile ‒ è solo necessario pazientare, giacché la prossima generazione sarà di certo l’emissario della provvidenza divina; per il pessimista, d’altro canto, si è già atteso un po’ troppo ‒ all’incirca qualche centinaio di migliaio di anni.

Una delle strategie discorsive del pessimista consiste nel rivelare una sorta di “realismo” del tempo, nel farne avvertire tutto il peso e nel conferire a tale peso valore di verità; la Terra, in questo senso, avrebbe sempre l’ultima parola sull’idea. Una seconda strategia consiste proprio nel lasciare che i dubbi proliferino, affinché la centralità cognitiva dell’individuo umano (la scimmia filosofica), ma anche dell’intera specie (la specie delle scimmie filosofiche), ne esca, per così dire, screditata e messa in ridicolo; tale è la sostanza dell’antiumanesimo o, meglio, dell’inumanesimo pessimista. La terza strategia riguarda, infine, la centralità della sofferenza: per il pessimista, ogni vivente soffre; è allora necessario abolire la sofferenza, o almeno denunciarla senza posa e senza mai arretrare di un passo. Storicamente ‒ proprio in virtù di tali strategie argomentative ‒ il pessimismo è stato fin dagli inizi del pensiero filosofico e poetico un valido alleato del pensiero ecologista e antispecista.

Senz’ombra di dubbio, il pessimismo non è mai stato “popolare”. Questa impopolarità, tuttavia, ha permesso al pessimismo di mescolare la propria visione negativa del mondo alla radicalità delle sue proposte pratiche ‒ tra le quali figurano, fin da tempi remoti, l’estinzione umana, il raggiungimento del Nirvana, il vegetarismo universale e, non ultimo, il suicidio programmatico. Se, prima dell’epoca moderna, il pessimismo era impraticabile, ciò era dovuto non solo alla sua disperazione concettuale, ma anche, e forse soprattutto, alla sua postura radicale nei confronti della vita non umana.

I veri problemi del pessimismo cominciano in epoca moderna, con l’affermarsi dell’umanismo, dello storicismo, del pensiero utopico e di quello rivoluzionario. Gli ultimi pessimisti e nichilisti anarchici (come nel caso di Renzo Novatore e Georges Palante) non sono che cigni neri nel grande stagno della storia. Con la vittoria della visione del mondo ottimista e progressista, un intero carattere ‒ un’intera tendenza spirituale nella sua totalità ‒ è stata espulsa dal dibattito politico. Non è un caso che il pessimismo, nella sua versione estinzionista, abbia rifatto capolino sotto forma di progetto razionale, universalista e per certi versi “ottimista” (giacché programmatico), pur conservando i tipici tratti ridicoli e iperbolici della tradizione pessimista: «L’umano deve estinguersi! Ogni nostro sforzo deve essere orientato a tale obiettivo, senza che si dabba far in alcun modo ricorso all’autorità o alla violenza». Si, certo, come no, un’idea così affascinante che la gente fa la fila per saperne di più ‒ senza contare l’estrema irrealizzabilità pratica di un simile progetto…o di qualsiasi altro progetto di decrescita della popolazione.

È tipico della modernità dover arrossire nel pronunciare termini quali anima, spirito, sostanza, angelo, demone, magia” e via dicendo ‒ lo è altrettanto l’obbligo di dover guadagnare rispettabilità accademica, politica e letteraria, donando veste razionale e analitica ai propri scritti e alle proprie idee (come nel caso di Benatar). Ne va della spendibilità di un argomento. Tale atteggiamento ‒ oltre a essere spiccatamente escludente, eurocentrico e acritico ‒ è, al tempo stesso, ingenuo. Ciò che il “buon senso” occulta è il fondamento razionale di ogni argomentazione e di ogni comportamento (come dimostrano, ad esempio, i Saggi sulla Bilogica di Matte Blanco, la Fenomenologia dello Spirito di Hegel o, più semplicemente, il fatto che la nostra specie sia sopravvissuta nel tempo), ma anche la presenza di una componente “trans-razionale” (esemplificata, come direbbe Wittgenstein, dal fatto che, a volte, baciamo le foto dei nostri cari o che decidiamo dove vada posta una finestra, pur non possedendo alcuna certezza logica o scientifica sul posizionamento delle finestre). Asserire che tutto quel che sfugge al centro di gravità dell’azione politica e della ricerca scientifica ufficiale sia “irrazionale”, significa semplicemente voler ignorare che tali costrutti, in altri tempi e in altri luoghi, non sono affatto esistiti, o che non hanno o non abbiano avuto valore egemonico.

In quest’epoca di alta modernità, il pessimismo ha fatto nuovamente irruzione all’interno dell’orizzonte filosofico, portando i suoi “doni fatali” ‒ nel duplice senso di uno scherzo del fato e di un contatto “contaminante”, potenzialmente mortifero. Con uno scatto nervoso, esso ci restituisce tutti i problemi di cui ci siamo sbarazzati nel corso della modernità: l’idea che il pianeta possa “star meglio” senza di noi (MacCormack, Zapffe, Benatar); l’idea che le colpe della catastrofe ecologica possano essere talmente distribuite da oltrepassare l’epoca capitalista, fino raggiungere i nostri antenati ‒ lungo la cosiddetta linea “agrilogistica” (Morton); l’idea che il mondo possa esserci indifferente, se non addirittura oscuramente avverso (Thacker, Ward); l’idea che non vi sia via di scampo dal disastro (Scranton, Land); l’idea che vi sia una natura umana e che sia irrimediabilmente corrotta o irrecuperabile (Ligotti). Un inaudito scuotimento delle nostre più assolute certezze o, forse (volendo minimizzare con una risatina o un ghigno sprezzante), un subdolo bastone tra le ruote del progresso. Tutto questo sfacelo a causa del pessimo carattere di qualche individuo isolato! Per di più da parte di una corrente filosofica disomogenea, detestata o quantomeno ignorata da tutt*, reputata alla stregua di un fenomeno da baraccone filosofico! Quale oltraggio nei confronti dell’azione politica.

Sorge allora spontanea una domanda: che fare? Che tipo di responsabilità dovrebbe assumersi il pessimista e in che misura? A che genere di quarantena mi dovrei sottoporre per non ferire me stesso e gli altri? Credo che il miglior protocollo possa consistere in un sano scettiscismo (in particolar modo autoriferito) e in una costante operazione di critica. Se non è di alcun aiuto all’azione politica e al tono generale dell’umore, il pessimismo, tuttavia, può offrire alcuni spunti al pensiero in quanto tale (quel pensiero che, nell’automa spirituale, può, per una buona volta, non essere immediatamente seguito dall’azione). L’estinzionismo, la teologia weird, il fatalismo, l’inumanismo, il nichilismo e via dicendo, ci pongono di fronte a dei vuoti, a delle mostruosità epistemiche e ontologiche, a delle assurdità, a dei paradossi, a delle certezze apparentemente monolitiche (come nel caso del determinismo forte). Nell’affrontare nani, draghi e giganti di questo genere ‒ nell’ergersi su di essi o nel farsi da essi travolgere ‒ la teoria espleta la propria principale funzione: quella di narrare, analizzare e aprire varchi nella fitta coltre di nebbia della realtà, di sbirciare tra i labirinti delle possibilità riportando al campo base, qualora sia possibile, strumenti atti alla prosecuzione dell’esplorazione. È mio parere che, in questa impresa, anche il carattere pessimista possa offrire preziosi contributi. Persino il fatalismo climatico, il più perverso e ambiguo discendente del pessimismo filosofico, è capace di ridestare miriadi di problemi, attraverso l’interrogativo: «Come imparare a sopravvivere e a morire nel bel mezzo della catastrofe?».

Lascerei, infine, la parola al pensatore anarchico Alejandro de Acosta, che nel suo Green Nihilism or Cosmic Pessimism scrive, a proposto del pessimismo cosmico:

Bhe, qualcuno potrebbe asserire che non ho fatto altro che importare una teoria aliena all’interno di una discussione altrimente familiare (se non addirittura semplice). L’ho fatto, eccome. Il mio obiettivo, tuttavia, non consiste nel sottoscriverla […]. Nostro scopo non è affermare il pessimismo cosmico (o qualsivoglia altra teoria; non è questo il valore o il senso della teoria); nostro scopo è pensare, continuare a dibattere del caos senza essere così stupidi da credere di essere dalla sua parte. Non vi è alcuna parte. Potremmo così realizzare che anche noi, lungo i nostri tentativi di riunirci, organizzarci, agire, mutare forma di vita e via dicendo, stavamo agendo nel mondo ‒ ignoranti del Pianeta e delle sue inimmaginabili stranezze3.

1 Donna Haraway, Chthulucene, trad. it. ci C. Durastanti e C. Ciccioni, Nero, Roma 2019.

2 Roy Scranton, Learning to Die in the Anthropocene, City Lights Books, San Francisco 2015, p. 49, traduzione mia.

3 Alejandro de Acosta, «Green Nihilism or Cosmic Pessimism», in «The Anvil Review», 20 novembre 2013, traduzione mia, https://theanvilreview.org/print/green-nihilism-or-cosmic-pessimism/.

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Alcune note su estinzionismo e dintorni

Posted on 2020/10/06 - 2020/10/06 by CDLFelix

Questo nostro contributo è pubblicato su Liberazioni – Rivista di critica antispecista Anno XI / n. 42 / Settembre 2020 http://www.liberazioni.eu/liberazioni-n-42/  disponibile in consultazione e distribuzione presso la nostra sede.

Alcune note su estinzionismo e dintorni

Come lettori e distributori di «Liberazioni» abbiamo seguito con sorpresa e preoccupazione gli articoli apparsi sugli ultimi numeri della rivista sul tema dell’“estinzionismo”1: teoria che ha tra i suoi esponenti Patricia MacCormack e David Benatar. Quest’ultimo ha recentemente pubblicato Il secondo sessismo. Discriminazione contro uomini e ragazzi: un libro in cui si cerca di sostenere la (diciamo così) bizzarra tesi secondo la quale gli uomini sarebbero vittime di violenza molto più delle donne. Altrettanto bizzarre sono le sue posizioni sulla necessità di una progressiva estinzione della specie umana. Secondo questo «dispositivo logico del tutto plausibile»2 (ma discutibilmente auspicabile) la vita è sofferenza e, quindi, evitare di far nascere persone equivarrebbe a evitare ulteriore sofferenza. Inoltre, e questo è il punto di contatto con il mondo antispecista, «l’umano è da solo una ragione di dolore continuo – di vero e proprio orrore – per le altre specie viventi»3. Per queste ragioni l’uomo dovrebbe semplicemente scomparire.

Riportati in un qualsiasi altro contesto questi ragionamenti risulterebbero del tutto risibili, questo tipo di argomentazioni, però, ha trovato un certo riscontro tra quanti si trovano a essere, in modo del tutto comprensibile, sempre più furenti e disperati di fronte ai disastri ecologici e ai crimini continuamente commessi ai danni degli altri animali. Tale rabbia non dovrebbe però farci perdere lucidità, abbandonandoci a visioni misantropiche e millenaristiche da fine del mondo. Anzi dovremmo saper rapprendere tale rabbia4, nel senso di concentrarla e indirizzarla verso i giusti obiettivi. Se «l’uomo non sa esistere se non attraverso il dominio»5, allora che cosa possiamo fare? Nulla, se non invocare la fine di tutto, fustigandoci per la maledizione di appartenere alla nostra specie. Se davvero non possiamo immaginare qualcosa di diverso, non ci resta che la soddisfazione di non aver aggiunto altra sofferenza: magra consolazione.

In MacCormack questi ragionamenti assumono i toni deliranti ed esaltati della teologia e, con disinvoltura, si parla di «grazia», «angeli» ed «estasi»: una forma di irrazionalismo che cerca di coniugarsi con la realtà della sofferenza animale e che, in questo modo, rischia di avvicinarsi pericolosamente a certe zone grigie contigue al pensiero nazista: quello della decisione sulle vite degne di cominciare o continuare6. Ma senza voler attribuire a quest* teoric* volontà di sterminio, non possiamo esimerci dal constatare quanto deboli siano le premesse di questi discorsi, che postulano l’esistenza di una natura umana unica e sempre uguale a se stessa: un’umanità fortemente stereotipata e fittizia, eletta in modo grossolano e semplicistico a causa di ogni male. Animati da un simile odio nei confronti del genere umano, alcuni si spingono fino a proporre l’abbandono del termine antispecismo in favore di quello di «antiumanismo», dal momento che l’uomo non parrebbe – ancora una volta – essere capace di esistere se non in modo feroce, predatorio, sfruttatore e sterminatore7.

Non si vuole ovviamente negare l’impatto devastante che la specie umana ha e ha avuto sul pianeta e sulle altre specie. Lo stravolgimento causato dalla specie umana sulla comunità ecologica è un’evidenza inconfutabile. Quello che è inaccettabile è invece il tentativo di trasformare la storia delle devastazioni della specie umana in qualcosa di inevitabile e necessario, qualcosa che si sostanzia in un presunto destino, sottratto alle contingenze, alla storia e alla possibilità di trasformazione sociale, etica e politica. Tale idea è sostenuta da veri e propri pregiudizi misantropici che non trovano peraltro alcun riscontro negli studi più recenti sull’evoluzione umana. Questi ultimi, infatti, mettono inequivocabilmente in luce il carattere del tutto contingente e imprevedibile del nostro percorso evolutivo, il quale non ha avuto nulla di necessario: siamo il frutto di una catena «bucherellata da eventi contingenti, da interferenze causali, da coincidenze improbabili»8. In tale quadro, non siamo per nulla diversi dalle altre specie biologiche e il nostro attuale modo di stare al mondo non è né speciale né inevitabile. Ciò dovrebbe restituirci a compiti presenti e futuri di solidarietà e di responsabilità e non a disperanti invocazioni della fine. Come scrive Pievani, «le cose potevano andare diversamente in passato e potranno andare diversamente in futuro»9. Tanto più se si prova a fare un calcolo della giovane età della nostra specie, alla quale sarebbe forse più corretto riferirsi come a un insieme di human becomings in divenire, piuttosto che a human beings fatti e finiti, vertice compiuto e irreversibile di tutta l’evoluzione. Infatti, « se la durata media della sopravvivenza di una specie animale sulla Terra si aggira intorno ai cinque milioni di anni […] abbiamo trascorso il 4% dell’esistenza media che la natura concede a specie come la nostra»10. Un periodo di tempo brevissimo che ci pone davanti a scenari certamente preoccupanti, ma che non hanno nulla di preordinato.

A fronte di tutto questo appare più che mai urgente richiamarsi proprio alla matrice etico-politica del pensiero antispecista, il quale nacque come un allargamento della visuale sulle discriminazioni perpetrate dall’animale uomo, con l’intento di mettere fine alle conseguenze in termini di violenza e di morte del dispositivo specista. In modo analogo opera l’antirazzismo e il legame con l’antispecismo è stato rivendicato a partire da Singer11, legame reso evidente negli ultimi decenni dalla forza e dalla varietà delle intersezioni spontanee tra lotte antispeciste, femminisme, queer e decoloniali. Nessuna persona sensata promuoverebbe la posizione di un antirazzista che, vista la storia delle violenze coloniali, proponesse l’estinzione degli europei bianchi. Le cose, però, cambiano con gli estinzionisti, il cui pensiero ha trovato un discreto riscontro in ambito ecologista e animalista. Ad attirare è una presunta radicalità, che si risolve in definitiva in una forma di facile nichilismo fatalista. È una rassegnazione dal sapore reazionario che ha sostituito all’antropocentrismo un’esaltazione biocentrica della Natura: un ente fantastico e selvaggio, romanticamente inteso come totalità, di cui l’uomo sarebbe una degenerazione aliena e da eliminare. L’umano impedirebbe il fiorire delle «potenzialità infinite della vita»12, come un corpo estraneo e nocivo. A partire da questo l’estinzione umana generalizzata diviene «il modo più semplice per contenere i danni» all’ambente e agli animali13. È un curioso dualismo quello sostenuto da MacCormack, che pretende di essere antispecista ma che continua a opporre natura e animali da un parte e uomo dall’altro, come se quest’ultimo fosse qualcosa di radicalmente altro. Questa opposizione binaria dovrebbe essere inaccettabile per chi rifiuta di porre una netta linea di separazione tra animali umani e non.

La furia misantropica di quest* teoric* elide la questione sociale e politica, il fatto cioè che sia l’organizzazione che gli umani si sono dati, e non una loro presunta natura, ad aver causato disastri e crimini. Tale operazione prende le mosse da una certa retorica della sovrappopolazione, la quale precede ideologicamente l’estinzionismo e si sviluppa nei movimenti ecologisti radicali prima e in quello antispecista poi. Questa teoria prende le mosse da intellettuali dell’Occidente industriale che, spalmando le colpe di questo sistema economico e sociale in modo indiscriminato su tutta l’umanità, scaricano senza remore la responsabilità delle devastazioni ecologiche e del riscaldamento globale sull’irrazionale e irresponsabile Sud del mondo, incapace di frenare la propria crescita demografica. Questa narrazione “animalizza”, ancora una volta, i comportamenti di quei popoli che vengono considerati inferiori, popoli non bianchi che si riproducono “come bestie” o “come formiche”: un metodo di discriminazione caro agli eco-fascismi e che gli/le antispecist* dovrebbero avere gli strumenti per svelare e decostruire.

Come hanno recentemente scritto Lorcon e J.R., si sta assistendo all’avanzare di un discorso sulla sovrappopolazione e sul controllo delle nascite inteso

non come libera autogestione individuale – e collettiva – ma come gerarchia razzializzata e classista. Si punta il dito contro i tassi di natalità nei paesi non occidentali – o meglio con un’economia sufficientemente sviluppata tale da porli al centro o vicino al centro del sistema-mondo – e si additano le masse di proletari di inurbazione recente o piccoli contadini dei paesi periferici, come colpevoli della crisi ecologica14.

Un’operazione concettuale pericolosa che spinge certe aree del movimento ecologista su terreni sdrucciolevoli e di vicinanza a immaginari totalitari.

I dati stessi su cui questa narrazione si basa sono poi altamente discutibili. Se si prende, ad esempio, la questione relativa all’impatto della biomassa umana sul globo terrestre, saltano agli occhi i seguenti dati:

A fronte di un peso medio individuale mondiale di 62 chilogrammi, il Nord America guadagna il primo posto nella classifica per nazioni con una media di 80,7 chilogrammi. Rapportato alla popolazione, significa che il Nord America rappresenta il 34 per cento della massa umana mondiale con solo il 6 per cento della popolazione, mentre l’Asia costituisce solo il 13 per cento della biomassa mondiale e il 61 per cento della popolazione15.

Altri due dati indicativi sono la carbon footprint e l’earth overshoot date, ossia il giorno in cui le risorse rinnovabili del pianeta vengono esaurite per l’anno in corso: entrambi questi indicatori variano enormemente da nazione a nazione e l’impatto biologico della specie non deriva tanto dalla popolazione in sé, quanto dalle scelte operate da determinati gruppi umani in termini di stile di vita, coltivazione, produzione, modo di alimentarsi, ecc. Se le cose stanno così, la questione non è eliminare la popolazione umana ma lottare per l’organizzazione di forme diverse di convivenza con l’ambiente che ci circonda e con gli esseri che lo abitano. Tanto più dal momento che non esiste una natura umana preconfezionata, così come non esiste una Natura da venerare come una divinità di cui saremmo indegni.

L’animale uomo può, e questo sì lo differenzia da molti altri animali, decidere come sostentarsi. Se accettassimo l’alimentazione onnivora come un dato ineluttabile, “naturale” e intrinseco a un nostro presunto destino, che cosa rimarrebbe dell’antispecismo? Smetteremmo di mangiare nella convinzione assurda che non ci si possa che alimentare a scapito di altre specie? L’uomo può instaurare feroci rapporti di disuguaglianza e di dominazione così come può decidere di costruire relazioni orizzontali, libere ed eguali. Analogamente, le comunità di cui fa parte possono sperimentare convivenze rispettose e sostenibili oppure distruggere, sottomettere e deturpare. Tutto dipende dalla volontà collettiva e dei singoli. Non c’è nulla di preordinato e la distinzione tra ciò che è naturale e ciò che non lo è, è quanto di più culturale e politico possa produrre il pensiero umano. Lasciamo dunque le colpe e i peccati originali ai sacerdoti e occupiamoci lucidamente di come intervenire sulla realtà che ci circonda. Per mettere fine alla catastrofe ecologica e al sistematico sterminio degli animali non umani, bisogna agire per un cambiamento dei codici culturali dominanti. Bisogna inceppare concettualmente e concretamente le macchine dello sfruttamento e della messa a morte, legando queste lotte in modo intersezionale con quelle antirazziste, femministe, decoloniali, queer e a difesa dei territori. Questi movimenti di pensiero e di azione non possono smarrirsi in allucinazioni post-apocalittiche, che ci condannano all’accettazione del dominio come evento naturale e inevitabile, prospettandoci come unica via d’uscita un progressivo suicidio collettivo.

1 Alberto Giovanni Biuso, «Meglio non essere mai nati. Riflessioni sul libro di David Benatar», in «Liberazioni», n. 38, autunno 2019; Claudio Kulesko, «Note dalla dimensione spettrale», ivi; Enrico Monacelli, «Grazia, estinzione, angeli interstiziali: una conversazione con Patricia MacCormack», in «Liberazioni», n. 39, inverno 2019.
2 A. G. Biuso, «Meglio non essere mai nati», cit., p. 37.
3 Ibidem, p. 39.
4 Editoriale, «40 volte», in «Liberazioni», n. 40, primavera 2020.
5 E. Monacelli, «Grazia, estinzione, angeli interstiziali», cit., p. 109.
6 A. G. Biuso, «Meglio non essere mai nati», cit., p. 39.
7 Enrico Giannetto, «Antispecismo o antiumanismo?», in «Liberazioni», n. 40, primavera 2020.
8 Telmo Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi. Per un’archeologia della globalizzazione, Meltemi, Milano 2018, p. 337.
9 Ibidem, p. 339.
10 Ibidem, p. 333.
11 Peter Singer, Liberazione animale, trad. it. di E. Ferreri, Mondadori, Milano 1991.
12 E. Monacelli, «Grazia, estinzione, angeli interstiziali», cit., p. 108.
13 C Kulesko, «Note dalla dimensione spettrale», cit., p. 109.
14 Lorcon e J. R, «Green Economy o del Salvataggio del Capitalismo», in Umanità Nova, 28 gennaio 2020, https://umanitanova.org/?p=11449.
15 «Tutto il ‘peso’ dell’umanità sul pianeta», in «Le Scienze», 20 giugno 2012, https://www.lescienze.it/news/2012/06/20/news/biomassa_popolazione_mondiale-1099473/.

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CIAO PAOLO

Posted on 2020/07/22 - 2020/07/22 by CDLFelix
Ieri, lunedì 20 luglio, Paolo Finzi, fondatore di “A-Rivista Anarchica”, se n’è andato e lo ha fatto volontariamente.

Come Laboratorio Autogestito la Miccia, abbiamo conosciuto Paolo nel gennaio del 2019, in occasione della presentazione al Diavolo Rosso del libro da lui curato su Fabrizio De Andrè: “Che non ci sono poteri buoni”. Prima dell’evento – riuscitissimo per partecipazione e interesse – avevamo passato un bellissimo pomeriggio di conoscenza reciproca.

Ci eravamo rivisti a Firenze in occasione della 9° Vetrina dell’editoria anarchica ed eravamo rimasti in contatto per la distribuzione del giornale e per l’organizzazione di un evento sul tema dell’antiziganismo e del Porrajmos, tematiche a lui e a noi molto care.

Da questi sporadici ma più che significativi incontri ne avevamo tratto le stesse impressioni riportate in queste tristi ore dai suoi “compagni di rivista”: l’impressione viva di un “maestro di anarchia e di etica, di dialogo e confronto, di un uomo brillante, intelligente, sensibile e gentile”.

Nato a Milano nel 1951 da famiglia antifascista, Paolo Finzi diventa militante anarchico giovanissimo e, nel marzo del 1968, conosce Giuseppe Pinelli. Il 12 dicembre 1969, quando avviene la strage di piazza Fontana, è il più giovane tra gli anarchici fermati dalla polizia insieme allo stesso Pinelli che poi morirà, precipitato da una finestra della Questura di Milano.

Nel 1971 Paolo partecipa alla fondazione della rivista anarchica “A”, la prima in Italia, in ordine alfabetico. Risale al 1974 la sua amicizia con Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi. Dopo la morte del cantautore genovese curerà dossier, cd e dvd su di lui e a lui dedicati. Parallelamente a questo terrà centinaia di conferenze su: pensiero anarchico, strage di stato, antifascismo, Spagna ’36, Errico Malatesta, rom e sinti. L’ultimo lavoro da lui curato è stato: “Farò del mio peggio. Cronache anarchiche a fumetti”, una raccolta di strisce di Anarchik, personaggio creato da Roberto Ambrosoli.

Con Paolo se ne va un pezzo importantissimo dell’anarchismo italiano. Di lui ci rimarrà per sempre l’esempio di un uomo capace di ascolto e di rispetto profondo e sincero. Un individuo di grandissimo profilo intellettuale e umano: una vita di navigazione, in direzione ostinata e contraria, verso un posto che si chiamasse “anarchia”.

LABORATORIO AUTOGESTITO LA MICCIA
CENTRO DI DOCUMENTAZONE LIBERTARIO “FELIX”
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Uenne – A Rivista

Posted on 2020/05/09 - 2020/05/15 by CDLFelix

Raccogliamo qui tutti i numeri di A Rivista, Umanità Nova e i materiali diffusi in questa quarantena in cui è stato impossibile distribuire stampa anarchica altrimenti.

 

Umanità Nova, numero 17 del 2020 -> imp_uenne17_2020perWEB


Umanità Nova, numero 16 del 2020 -> imp_uenne16_2020perWEB

Qui l’editoriale di A rivista di maggio -> a443_editoriale


Umanità Nova, numero 15 del 2020 -> imp_uenne15_2020perWEB

Il Podcast di A Rivista con anticipazioni e approfondimenti: http://www.arivista.org/podcast


Umanità Nova, numero 14 del 2020 -> imp_uenne14_2020perWEB


Umanitò Nova, numero 13 del 2020 -> imp_uenne13_2020perWEB


Umanità Nova, numero 12 del 2020 -> imp_uenne12_2020perWEB

Presentazione di “A Rivista” 442 (aprile 2020) -> http://www.arivista.org/la-rivista?idU=2&acm=1833_74

avvenuta lunedì 6 aprile http://www.arivista.org/index.php?option=com_acymailing&ctrl=url&subid=1833&urlid=75&mailid=74


Umanità Nova, numero 11 del 2020 -> UENNE11_2020

A Rivista, numero di Aprile -> ARIVISTA442


Umanità Nova, numero 10 del 2020 -> uenne_29_03

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Storia di Nedo. Disertore, partigiano, anarchico.

Posted on 2020/04/24 by CDLFelix

Giacomo Tartaglino nasce a Mongardino nel 1878 e muore ad Asti nel 1961. Tartaglino, nome di battaglia da partigiano “Nedo”, inizia la propria attività politica come socialista e sindacalista tra i ferrovieri. Durante la Prima Guerra Mondiale organizza una rete che permette l’espatrio clandestino di centinaia di disertori. Disertore egli stesso, sarà una guardia rossa sulle barricate di Monaco. Ritornato in Italia, durante gli anni del fascismo, subirà numerosi fermi e perquisizioni dalla polizia fascista, fino al 1944, anno in cui partecipa alla Resistenza come partigiano combattente. Nel dopoguerra aderirà alla neonata Federazione Anarchica Italiana, facendosi promotore del Gruppo Anarchico “Pietro Ferrero”, con sede ad Asti in via Mazzini n. 6.

Quello che vi proponiamo di seguito è un estratto dall’opuscolo “Storia di Nedo. Disertore, partigiano, anarchico”. Questo piccolo lavoro, autoprodotto dal nostro centro di documentazione CDL Felix, doveva essere presentato proprio in questi giorni. La pandemia ne ha impedito l’uscita ma vogliamo comunque condividerne con voi qualche pagina, in attesa di poter presentare l’intero lavoro in una sede più congrua.

Scarica l’opuscolo qui: Storia di Nedo – estratto

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Il medico anarchico Virgilio Bottero

Posted on 2020/04/23 by CDLFelix

Articolo su Virgilio Bottero: astigiano emigrato in Uruguay, medico, anarchico e volontario in Spagna. Perché l’antifascismo non è iniziato l’8 settembre e non si è combattuto solo in Italia.

Stefano Brezzo, Il medico anarchico Virgilio Bottero: un astigiano a Montevideo, in Asti Contemporanea n. 17, dicembre 2018.

Per leggere la biografia completa e gli scritti: https://cdlfelix.noblogs.org/files/2018/09/Il-medico-di-Luce-Testo.pdf

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“Lo spazio politico dell’anarchia” – consigli di lettura

Posted on 2020/04/17 - 2020/04/17 by CDLFelix

Eduardo Colombo, “Lo spazio politico dell’anarchia”, Elèuthera, Milano 2008.

Il libro: https://eleuthera.it/scheda_libro.php?idlib=238

Scarica: https://eleuthera.it/files/materiali/colombo_spazio_politico_dellanarchia.pdf

La vita: https://fr.wikipedia.org/wiki/Eduardo_Colombo

Intervista: https://eleuthera.it/files/materiali/Intervista%20a%20Eduardo%20Colombo.pdf

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CONSIGLI DI LETTURA #4 – La nota persona. Errico Malatesta in Italia

Posted on 2020/04/09 by CDLFelix

LETTURA E BREVE PRESENTAZIONE DEL LIBRO:

Errico Malatesta, “Tanto peggio, tanto meglio” in Paolo Finzi, “La nota persona. Errico Malatesta in Italia”, Edizioni La Fiaccola, Ragusa 2008.

 

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Riflessioni antispeciste sul coronavirus

Posted on 2020/04/07 by CDLFelix

Un virus salterino

Il SARS-Cov-2, il virus che nell’uomo causa la malattia nota come Covid-19, ha compiuto un salto di specie dal pipistrello all’uomo, forse attraverso un ospite intermedio. La stessa cosa è già successa con la SARS nel 2003, la MERS nel 2012, l’Ebola, la suina H1N1 e l’aviaria H5N1, Zika, HIV… tutte malattie portate da virus dopo un salto di specie. (1)

Non c’è da stupirsi che noi animali umani rappresentiamo un’occasione preziosa per molti tipi di virus e batteri. Siamo grandi animali che vivono in condizioni di sovraffollamento nelle città, ci muoviamo moltissimo in tutto il pianeta costituendo un vettore di infezione globale perfetto anche a partire da un unico focolaio isolato. Quanto alle occasioni, non mancano di certo. Entriamo continuamente in contatto con altri animali ospiti di virus e batteri: allevamenti, macelli e mercati per gli animali cosiddetti “da reddito”, mentre sul fronte distruttivo della deforestazione incrociamo il nostro percorso con un’enorme varietà di animali selvatici invadendo il loro habitat. (2)

Cos’è l’antropocentrismo, e perché un virus dovrebbe aiutarci a metterlo in discussione?

L’antropocentrismo è l’idea che noi esseri umani siamo al centro e al di sopra di tutto il resto dell’esistente, idea che crea una divisione binaria tra l’animale uomo e il resto degli animali. Naturalmente, in questa divisione noi esseri umani ci assegniamo il posto al vertice di questa scala gerarchica, e da questa posizione esercitiamo il nostro privilegio sfruttando gli altri animali, scacciandoli e lasciandoli morire quando vogliamo il loro territorio, e smembrandone a centinaia di miliardi per l’industria di carne e derivati come latticini e uova. L’antropocentrismo ci ha illus* di essere intoccabili e autosufficienti, di poter dominare sull’intero pianeta, ignorando e calpestando l’insieme delle relazioni che ci legano al resto della biosfera. Tra le altre cose, anche questa epidemia ci dimostra che non è così: il confine tra le specie è permeabile, per i virus così come per le relazioni, la comunicazione, i sentimenti. Se possiamo imparare qualcosa da questo casino, perché rinunciare? Abbiamo un enorme bisogno di rimettere in discussione il ruolo che la nostra specie si è illusa di avere, e di cambiare il modo in cui ci relazioniamo con le altre specie viventi. Questa è l’ennesima buona occasione che ci capita per farlo.

Altrochè laboratori segreti, basta la zootecnia.

La zootecnia, con il suo apparato di produzioni agricole per i mangimi, di allevamento intensivo e di macellazione industriale, è l’unico metodo possibile per produrre cibo di origine animale a sufficienza per soddisfare la richiesta del mercato. Chi sostiene che bisognerebbe passare ad un allevamento estensivo, allo stato brado, “naturale”, sappia che vorrebbe dire un mondo in cui i cibi di origine animale sono appannaggio unicamente di un’elite ricca o così rari da costituire un’eccezione più che una costante nell’alimentazione umana. (3) La coltivazione di mangime impiega enormi risorse idriche, causa deforestazione sulla terra e soffoca gli oceani con l’ipertrofia delle alghe causata dall’immissione nei corsi d’acqua di concimi azotati. (4) Tutto questo per permettere all’industria degli allevamenti di compiere orrori infiniti sulla pelle di 150 miliardi di animali ogni anno: ammassati in luoghi sporchi, malati e feriti, vengono imbottiti di antibiotici e antiparassitari per restare vivi abbastanza a lungo da raggiungere un peso profittevole sul mercato. Queste condizioni sono lo scenario perfetto che favorisce lo sviluppo di nuovi patogeni. Batteri resistenti agli antibiotici, che uccidono già 700.000 persone ogni anno nel mondo e che secondo le stime diventeranno la prima causa di morte nel 2050 con 10 milioni di vittime all’anno (insomma, non dovremo aspettare a lungo per la prossima emergenza sanitaria che prolunghi all’infinito questo stato di eccezione) (5). E virus, che hanno modo di replicarsi in numero enorme. Questo significa che statisticamente, prima o poi, qualcuno di questi riesce a mutare per compiere il famoso salto di specie verso l’uomo – che è a continuo contatto con gli animali detenuti in cattività.

L’enorme portata della sofferenza e dello sfruttamento animale riesce a indurre un cambiamento di prospettiva solo in poche persone, e probabilmente non sarà l’ennesima zoonosi a fare di meglio. Ma non rinunciamo a cogliere questa ulteriore occasione di mettere in dubbio il paradigma specista e antropocentrico della nostra società: non possiamo affrontare alcun discorso di salute pubblica se non ripensiamo al modo in cui trattiamo gli altri animali, e al motivo per cui li trattiamo così. Gli allevamenti sono luoghi di orrore che vanno chiusi, gli altri animali hanno il nostro stesso diritto alla libertà e all’autodeterminazione, e questa potrebbe essere anche l’unico modo di evitare una catastrofe sanitaria e climatica. Cosa ci serve ancora per cambiare?

Nei panni dell’Altro.

Da alcune settimane stiamo sperimentando una quotidianità diversa, alienante e stressante. Siamo stat* privat* della libertà di movimento che avevamo prima, della possibilità di agire il nostro tempo liberamente, di incontrarci, di stare all’aria aperta. Che vita è? La più immediata riflessione che possiamo fare ci porta a provare un forte senso di solidarietà con chi vive sempre queste restrizioni: carcerat*, reclus*, istituzionalizzat*, persone disabili e non autosufficienti costrette a vivere in un’abitazione per mancanza di mezzi adeguati. Ma tendiamo lo sguardo oltre, e basta poco per accorgerci che è esattamente la stessa vita a cui sono condannati buona parte dei nostri animali domestici, in verità i più fortunati, quelli che “stanno bene”. Abbiamo da mangiare, da bere, un letto, non dovremmo essere felici così? Chi divide la casa con cani e gatti, pesci di acquario, rettili o uccelli in gabbia, ha un’occasione unica per capire che cosa significa trascorrere l’esistenza tra quattro mura, uscire solo pochi minuti al giorno per una distratta passeggiata, o osservare malinconicamente lo scorrere della vita fuori dalle finestre. Una vita che resta oltre la nostra portata, anche se abbiamo la ciotola piena. Tutti gli animali sono mossi dagli stessi desideri basilari che muovono anche noi, desiderano essere protagonisti delle proprie vite, delle proprie giornate, esprimere le proprie inclinazioni, essere liberi. Facendo uno sforzo per porci nei loro confronti con curiosità e imparare cosa significa essere vivo per un gatto o un cane, poniamo le basi per un’esperienza arricchente e di reciproco rispetto. Non sarebbe male se da questa esperienza potessimo arrivare a rivoluzionare il nostro rapporto con gli altri animali anche nelle nostre relazioni affettive domestiche, smettendo di pensare agli animali domestici come animali “da compagnia”, che servono per darci affetto e attenzioni in cambio di cibo e coccole, e iniziando a vederli come sono realmente: individui unici e compagni animali con cui costruire un rapporto di reciprocità.

Difficoltà nei rifugi.

Questa epidemia e le misure di sicurezza sanitarie che sono state attuate stanno mettendo in grave difficoltà i rifugi per animali liberati, i canili e i gattili. Le adozioni sono ferme, gli eventi di autofinanziamento anche, ma le esigenze degli animali ospitati non cambiano. Cibo e spese veterinarie vanno pagate. Chi lavora in queste strutture sta continuando, al pari di altre categorie, ad esporre se stess* e l* propr* car* al rischio di contagio per assistere gli animali. Le donazioni di cibo, coperte, antiparassitari e anche di denaro, quando si può, sono sempre benvenute e necessarie per non lasciare indietro quelli che sono sempre, e ancora a lungo saranno, gli ultimi degli ultimi.

Contro ogni dominio, ogni gerarchia, per una solidarietà universale e senza confine!

Note:

(1) https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/dalla-peste-coronavirus-come-pandemie-hanno-cambiato-storia-dell-uomo/d71a9986-6dfd-11ea-9b88-27b94f5268fe-va.shtml

(2) https://www.vegolosi.it/news/qual-e-il-collegamento-fra-il-coronavirus-e-gli-allevamenti-intensivi/

(3) https://www.onegreenplanet.org/news/chart-shows-worlds-land-used/ Nel mondo il 77% percento delle terre agricole sono destinati a pascolo e coltivazione di mangimi, producendo solo il 17% delle calorie e il 33% delle proteine dell’intera alimentazione umana. Nell’unione europea, il 70% della terra agricola è usata per l’alimentazione animale. Eppure solo il 9% della carne bovina e il 30% della carne ovina al mondo è prodotta da pascolo. http://www.fao.org/3/X5303E/x5303e05.htm#chapter%202:%20livestock%20grazing%20systems%20&%20the%20environment Evidentemente è impossibile mantenere l’attuale produzione di carne, latte e uova con il pascolo, per non contare che proprio lo sfruttamento eccessivo del pascolo è una delle principali cause di desertificazione. http://www.ciesin.columbia.edu/docs/002-186/002-186.html

(4) https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2367646/

(5) https://ilfattoalimentare.it/resistenza-agli-antibiotici.html

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CONSIGLI DI LETTURA #3 – Anarchici e orgogliosi di esserlo

Posted on 2020/04/03 by CDLFelix

Amedeo Bertolo, “La gramigna sovversiva”, 1979, in “Anarchici e orgogliosi di esserlo”, Eléuthera, 2017.

 

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