Alcune note su estinzionismo e dintorni

Questo nostro contributo è pubblicato su Liberazioni – Rivista di critica antispecista Anno XI / n. 42 / Settembre 2020 http://www.liberazioni.eu/liberazioni-n-42/  disponibile in consultazione e distribuzione presso la nostra sede.

Alcune note su estinzionismo e dintorni

Come lettori e distributori di «Liberazioni» abbiamo seguito con sorpresa e preoccupazione gli articoli apparsi sugli ultimi numeri della rivista sul tema dell’“estinzionismo”1: teoria che ha tra i suoi esponenti Patricia MacCormack e David Benatar. Quest’ultimo ha recentemente pubblicato Il secondo sessismo. Discriminazione contro uomini e ragazzi: un libro in cui si cerca di sostenere la (diciamo così) bizzarra tesi secondo la quale gli uomini sarebbero vittime di violenza molto più delle donne. Altrettanto bizzarre sono le sue posizioni sulla necessità di una progressiva estinzione della specie umana. Secondo questo «dispositivo logico del tutto plausibile»2 (ma discutibilmente auspicabile) la vita è sofferenza e, quindi, evitare di far nascere persone equivarrebbe a evitare ulteriore sofferenza. Inoltre, e questo è il punto di contatto con il mondo antispecista, «l’umano è da solo una ragione di dolore continuo – di vero e proprio orrore – per le altre specie viventi»3. Per queste ragioni l’uomo dovrebbe semplicemente scomparire.

Riportati in un qualsiasi altro contesto questi ragionamenti risulterebbero del tutto risibili, questo tipo di argomentazioni, però, ha trovato un certo riscontro tra quanti si trovano a essere, in modo del tutto comprensibile, sempre più furenti e disperati di fronte ai disastri ecologici e ai crimini continuamente commessi ai danni degli altri animali. Tale rabbia non dovrebbe però farci perdere lucidità, abbandonandoci a visioni misantropiche e millenaristiche da fine del mondo. Anzi dovremmo saper rapprendere tale rabbia4, nel senso di concentrarla e indirizzarla verso i giusti obiettivi. Se «l’uomo non sa esistere se non attraverso il dominio»5, allora che cosa possiamo fare? Nulla, se non invocare la fine di tutto, fustigandoci per la maledizione di appartenere alla nostra specie. Se davvero non possiamo immaginare qualcosa di diverso, non ci resta che la soddisfazione di non aver aggiunto altra sofferenza: magra consolazione.

In MacCormack questi ragionamenti assumono i toni deliranti ed esaltati della teologia e, con disinvoltura, si parla di «grazia», «angeli» ed «estasi»: una forma di irrazionalismo che cerca di coniugarsi con la realtà della sofferenza animale e che, in questo modo, rischia di avvicinarsi pericolosamente a certe zone grigie contigue al pensiero nazista: quello della decisione sulle vite degne di cominciare o continuare6. Ma senza voler attribuire a quest* teoric* volontà di sterminio, non possiamo esimerci dal constatare quanto deboli siano le premesse di questi discorsi, che postulano l’esistenza di una natura umana unica e sempre uguale a se stessa: un’umanità fortemente stereotipata e fittizia, eletta in modo grossolano e semplicistico a causa di ogni male. Animati da un simile odio nei confronti del genere umano, alcuni si spingono fino a proporre l’abbandono del termine antispecismo in favore di quello di «antiumanismo», dal momento che l’uomo non parrebbe – ancora una volta – essere capace di esistere se non in modo feroce, predatorio, sfruttatore e sterminatore7.

Non si vuole ovviamente negare l’impatto devastante che la specie umana ha e ha avuto sul pianeta e sulle altre specie. Lo stravolgimento causato dalla specie umana sulla comunità ecologica è un’evidenza inconfutabile. Quello che è inaccettabile è invece il tentativo di trasformare la storia delle devastazioni della specie umana in qualcosa di inevitabile e necessario, qualcosa che si sostanzia in un presunto destino, sottratto alle contingenze, alla storia e alla possibilità di trasformazione sociale, etica e politica. Tale idea è sostenuta da veri e propri pregiudizi misantropici che non trovano peraltro alcun riscontro negli studi più recenti sull’evoluzione umana. Questi ultimi, infatti, mettono inequivocabilmente in luce il carattere del tutto contingente e imprevedibile del nostro percorso evolutivo, il quale non ha avuto nulla di necessario: siamo il frutto di una catena «bucherellata da eventi contingenti, da interferenze causali, da coincidenze improbabili»8. In tale quadro, non siamo per nulla diversi dalle altre specie biologiche e il nostro attuale modo di stare al mondo non è né speciale né inevitabile. Ciò dovrebbe restituirci a compiti presenti e futuri di solidarietà e di responsabilità e non a disperanti invocazioni della fine. Come scrive Pievani, «le cose potevano andare diversamente in passato e potranno andare diversamente in futuro»9. Tanto più se si prova a fare un calcolo della giovane età della nostra specie, alla quale sarebbe forse più corretto riferirsi come a un insieme di human becomings in divenire, piuttosto che a human beings fatti e finiti, vertice compiuto e irreversibile di tutta l’evoluzione. Infatti, « se la durata media della sopravvivenza di una specie animale sulla Terra si aggira intorno ai cinque milioni di anni […] abbiamo trascorso il 4% dell’esistenza media che la natura concede a specie come la nostra»10. Un periodo di tempo brevissimo che ci pone davanti a scenari certamente preoccupanti, ma che non hanno nulla di preordinato.

A fronte di tutto questo appare più che mai urgente richiamarsi proprio alla matrice etico-politica del pensiero antispecista, il quale nacque come un allargamento della visuale sulle discriminazioni perpetrate dall’animale uomo, con l’intento di mettere fine alle conseguenze in termini di violenza e di morte del dispositivo specista. In modo analogo opera l’antirazzismo e il legame con l’antispecismo è stato rivendicato a partire da Singer11, legame reso evidente negli ultimi decenni dalla forza e dalla varietà delle intersezioni spontanee tra lotte antispeciste, femminisme, queer e decoloniali. Nessuna persona sensata promuoverebbe la posizione di un antirazzista che, vista la storia delle violenze coloniali, proponesse l’estinzione degli europei bianchi. Le cose, però, cambiano con gli estinzionisti, il cui pensiero ha trovato un discreto riscontro in ambito ecologista e animalista. Ad attirare è una presunta radicalità, che si risolve in definitiva in una forma di facile nichilismo fatalista. È una rassegnazione dal sapore reazionario che ha sostituito all’antropocentrismo un’esaltazione biocentrica della Natura: un ente fantastico e selvaggio, romanticamente inteso come totalità, di cui l’uomo sarebbe una degenerazione aliena e da eliminare. L’umano impedirebbe il fiorire delle «potenzialità infinite della vita»12, come un corpo estraneo e nocivo. A partire da questo l’estinzione umana generalizzata diviene «il modo più semplice per contenere i danni» all’ambente e agli animali13. È un curioso dualismo quello sostenuto da MacCormack, che pretende di essere antispecista ma che continua a opporre natura e animali da un parte e uomo dall’altro, come se quest’ultimo fosse qualcosa di radicalmente altro. Questa opposizione binaria dovrebbe essere inaccettabile per chi rifiuta di porre una netta linea di separazione tra animali umani e non.

La furia misantropica di quest* teoric* elide la questione sociale e politica, il fatto cioè che sia l’organizzazione che gli umani si sono dati, e non una loro presunta natura, ad aver causato disastri e crimini. Tale operazione prende le mosse da una certa retorica della sovrappopolazione, la quale precede ideologicamente l’estinzionismo e si sviluppa nei movimenti ecologisti radicali prima e in quello antispecista poi. Questa teoria prende le mosse da intellettuali dell’Occidente industriale che, spalmando le colpe di questo sistema economico e sociale in modo indiscriminato su tutta l’umanità, scaricano senza remore la responsabilità delle devastazioni ecologiche e del riscaldamento globale sull’irrazionale e irresponsabile Sud del mondo, incapace di frenare la propria crescita demografica. Questa narrazione “animalizza”, ancora una volta, i comportamenti di quei popoli che vengono considerati inferiori, popoli non bianchi che si riproducono “come bestie” o “come formiche”: un metodo di discriminazione caro agli eco-fascismi e che gli/le antispecist* dovrebbero avere gli strumenti per svelare e decostruire.

Come hanno recentemente scritto Lorcon e J.R., si sta assistendo all’avanzare di un discorso sulla sovrappopolazione e sul controllo delle nascite inteso

non come libera autogestione individuale – e collettiva – ma come gerarchia razzializzata e classista. Si punta il dito contro i tassi di natalità nei paesi non occidentali – o meglio con un’economia sufficientemente sviluppata tale da porli al centro o vicino al centro del sistema-mondo – e si additano le masse di proletari di inurbazione recente o piccoli contadini dei paesi periferici, come colpevoli della crisi ecologica14.

Un’operazione concettuale pericolosa che spinge certe aree del movimento ecologista su terreni sdrucciolevoli e di vicinanza a immaginari totalitari.

I dati stessi su cui questa narrazione si basa sono poi altamente discutibili. Se si prende, ad esempio, la questione relativa all’impatto della biomassa umana sul globo terrestre, saltano agli occhi i seguenti dati:

A fronte di un peso medio individuale mondiale di 62 chilogrammi, il Nord America guadagna il primo posto nella classifica per nazioni con una media di 80,7 chilogrammi. Rapportato alla popolazione, significa che il Nord America rappresenta il 34 per cento della massa umana mondiale con solo il 6 per cento della popolazione, mentre l’Asia costituisce solo il 13 per cento della biomassa mondiale e il 61 per cento della popolazione15.

Altri due dati indicativi sono la carbon footprint e l’earth overshoot date, ossia il giorno in cui le risorse rinnovabili del pianeta vengono esaurite per l’anno in corso: entrambi questi indicatori variano enormemente da nazione a nazione e l’impatto biologico della specie non deriva tanto dalla popolazione in sé, quanto dalle scelte operate da determinati gruppi umani in termini di stile di vita, coltivazione, produzione, modo di alimentarsi, ecc. Se le cose stanno così, la questione non è eliminare la popolazione umana ma lottare per l’organizzazione di forme diverse di convivenza con l’ambiente che ci circonda e con gli esseri che lo abitano. Tanto più dal momento che non esiste una natura umana preconfezionata, così come non esiste una Natura da venerare come una divinità di cui saremmo indegni.

L’animale uomo può, e questo sì lo differenzia da molti altri animali, decidere come sostentarsi. Se accettassimo l’alimentazione onnivora come un dato ineluttabile, “naturale” e intrinseco a un nostro presunto destino, che cosa rimarrebbe dell’antispecismo? Smetteremmo di mangiare nella convinzione assurda che non ci si possa che alimentare a scapito di altre specie? L’uomo può instaurare feroci rapporti di disuguaglianza e di dominazione così come può decidere di costruire relazioni orizzontali, libere ed eguali. Analogamente, le comunità di cui fa parte possono sperimentare convivenze rispettose e sostenibili oppure distruggere, sottomettere e deturpare. Tutto dipende dalla volontà collettiva e dei singoli. Non c’è nulla di preordinato e la distinzione tra ciò che è naturale e ciò che non lo è, è quanto di più culturale e politico possa produrre il pensiero umano. Lasciamo dunque le colpe e i peccati originali ai sacerdoti e occupiamoci lucidamente di come intervenire sulla realtà che ci circonda. Per mettere fine alla catastrofe ecologica e al sistematico sterminio degli animali non umani, bisogna agire per un cambiamento dei codici culturali dominanti. Bisogna inceppare concettualmente e concretamente le macchine dello sfruttamento e della messa a morte, legando queste lotte in modo intersezionale con quelle antirazziste, femministe, decoloniali, queer e a difesa dei territori. Questi movimenti di pensiero e di azione non possono smarrirsi in allucinazioni post-apocalittiche, che ci condannano all’accettazione del dominio come evento naturale e inevitabile, prospettandoci come unica via d’uscita un progressivo suicidio collettivo.

1 Alberto Giovanni Biuso, «Meglio non essere mai nati. Riflessioni sul libro di David Benatar», in «Liberazioni», n. 38, autunno 2019; Claudio Kulesko, «Note dalla dimensione spettrale», ivi; Enrico Monacelli, «Grazia, estinzione, angeli interstiziali: una conversazione con Patricia MacCormack», in «Liberazioni», n. 39, inverno 2019.
2 A. G. Biuso, «Meglio non essere mai nati», cit., p. 37.
3 Ibidem, p. 39.
4 Editoriale, «40 volte», in «Liberazioni», n. 40, primavera 2020.
5 E. Monacelli, «Grazia, estinzione, angeli interstiziali», cit., p. 109.
6 A. G. Biuso, «Meglio non essere mai nati», cit., p. 39.
7 Enrico Giannetto, «Antispecismo o antiumanismo?», in «Liberazioni», n. 40, primavera 2020.
8 Telmo Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi. Per un’archeologia della globalizzazione, Meltemi, Milano 2018, p. 337.
9 Ibidem, p. 339.
10 Ibidem, p. 333.
11 Peter Singer, Liberazione animale, trad. it. di E. Ferreri, Mondadori, Milano 1991.
12 E. Monacelli, «Grazia, estinzione, angeli interstiziali», cit., p. 108.
13 C Kulesko, «Note dalla dimensione spettrale», cit., p. 109.
14 Lorcon e J. R, «Green Economy o del Salvataggio del Capitalismo», in Umanità Nova, 28 gennaio 2020, https://umanitanova.org/?p=11449.
15 «Tutto il ‘peso’ dell’umanità sul pianeta», in «Le Scienze», 20 giugno 2012, https://www.lescienze.it/news/2012/06/20/news/biomassa_popolazione_mondiale-1099473/.