Questa risposta di Claudio Kulesko al nostro articolo “Alcune note su estinzionismo e dintorni” è pubblicata su Liberazioni – Rivista di critica antispecista Anno XI / n. 42 / Settembre 2020 http://www.liberazioni.eu/liberazioni-n-42/ disponibile in consultazione e distribuzione presso la nostra sede.
Claudio Kulesko
Invocare la morte su di sé. Inattualità e inutilità del pessimismo speculativo.
Per un viscido ammasso di carbonio, intrappolato su una roccia che vortica nel bel mezzo di un’insignificante galassia, lontana anni luce da qualsiasi altro punto dell’universo, esser riuscito a sviluppare tecnologie in grado di inviare nello spazio radiotelescopi capaci di rilevare l’età dell’universo, è una conquista che ha del prodigioso.
Roy Scranton, Learning to Die in the Anthropocene
Davvero niente male per un’escrescenza di collagene! Ma credevate davvero che ciò sarebbe basato a placare la furia della Terra? È questo sardonico interrogativo a rendere Roy Scranton un profeta di sventura. Il suo bestseller, Learning to Die in the Anthropocene, non è che una eco, cupa e mutila, dell’invito di Donna Haraway a imparare a vivere e morire in tempi difficili ‒ costruendo e coltivando relazioni complesse, ricche e interspecifiche1. A dirla tutta, Scranton non si limita a precognizzare una terribile sventura, egli la invoca, la brama, spianando la strada all’avvento della catastrofe climatica che si sta per abbattere sull’intera biosfera planetaria. Il suo è un incoraggiamento a non far nulla, a non intervenire, a lasciarsi travolgere. Tutto quel che è accaduto negli ultimi 13 miliardi di anni è accaduto esattamente così come doveva accadere. Non un singolo atomo fuori posto, non un singolo muone in difetto. Nulla è andato storto. Non vi è stato il benché minimo sbaglio. Nessun peccato originale, nessun errore, nessuna caduta. Tutto quel che è stato, è stato necessariamente2.
È evidente. Il “fatalismo climatico” flirta con il business-as-usual proprio nel medesimo istante in cui denuncia gli orrori della catastrofe ambientale. È questa segreta complicità a rendere Scranton una voce pericolosa per i movimenti ambientalisti e antispecisti. Le motivazioni che autori, quali Scranton, Franzen e Kingsnorth, adducono a sostegno dell’ipotesi dell’irreversibilità e dell’inevitabilità della catastrofe sono molte e di diversa natura. Eccone alcune: la catastrofe climatica è già oltre la soglia di intervento, d’ora in avanti solo l’abisso ci attende; una vera azione collettiva, rivoluzionaria, di portata globale, non sarà mai davvero possibile; il greenwashing renderà ogni concreto processo di emancipazione impraticabile, o persino non auspicabile, agli occhi della maggioranza della popolazione; ogni forma di resistenza pacifica non sarà dotata della necessaria incisività; ogni forma di resistenza violenta sarà schiacciata dal potere; le energie rinnovabili non sono che un ingenuo palliativo; l umano è intrinsecamente prevaricatore (come testimonierebbe, ad esempio, l’estinzione della magafauna in Nord America e Nuova Zelanda). Un elenco, più o meno esaustivo, delle scuse, anzi, degli alibi offerti da questa categoria di pensatori.
Un sacco di roba della quale potersi lamentare, tanto in pubblico quanto tra sé e sé. Assumere un simile atteggiamento, in fondo, equivarrebbe a prendere attivamente parte a una profezia autoavverantesi: tutto è accaduto solo perché abbiamo scelto di non far nulla. L’azione politica ‒ la vera e genuina azione politica ‒ si fonda su un incrollabile principio di speranza e sullo slancio vitale. Essa è, pertanto, totalmente incompatibile con l’abbandono, con la rassegnazione, con l’inazione e la disperazione. Innumerevoli corpi martoriati, di ogni specie e genere, gridano vendetta, invocando il sacro furore dell’azione politica radicale. Tuttavia, a ben vedere, c’è qualcuno in grado di smentire, oltre ogni ragionevole dubbio, l’argomento determinista? Vi è davvero, da qualche parte del globo, qualcuno in grado di illuminarci sui fondamenti del libero arbitrio o, ancora, di negare o affermare una proposizione certa a riguardo della natura umana? La rivoluzione, la rivolta totale, l’abolizione dell’energia fossile, degli allevamenti intensivi sono davvero a portata di mano? Siamo certi che, dietro l’angolo, non ci attenda altro che un massacro senza precedenti?
L’atteggiamento fatalista e quello nichilista non fanno altro che insinuare dubbi, facendo proliferare le (im)possibilità e le negazioni, paralizzando l’azione fino all’atrofia. «Non c’è più nulla da fare». «È la fine». «Siamo condannati». Tali atteggiamenti ‒ al tempo stesso morali, etici, metafisici ed epistemici ‒ confluiscono all’interno di una singola posizione filosofica: il pessimismo (quel grande “carattere” che, com’è noto, contraddistinse autori quali Schopenhauer, Leopardi e Unamuno). Come ha affermato lo scrittore horror-weird Thomas Ligotti, tra pessimismo e ottimismo si frappone un abisso gnoseologico dai tratti semi-umoristici: per l’ottimista, il mondo è perfettibile e la sofferenza estirpabile ‒ è solo necessario pazientare, giacché la prossima generazione sarà di certo l’emissario della provvidenza divina; per il pessimista, d’altro canto, si è già atteso un po’ troppo ‒ all’incirca qualche centinaio di migliaio di anni.
Una delle strategie discorsive del pessimista consiste nel rivelare una sorta di “realismo” del tempo, nel farne avvertire tutto il peso e nel conferire a tale peso valore di verità; la Terra, in questo senso, avrebbe sempre l’ultima parola sull’idea. Una seconda strategia consiste proprio nel lasciare che i dubbi proliferino, affinché la centralità cognitiva dell’individuo umano (la scimmia filosofica), ma anche dell’intera specie (la specie delle scimmie filosofiche), ne esca, per così dire, screditata e messa in ridicolo; tale è la sostanza dell’antiumanesimo o, meglio, dell’inumanesimo pessimista. La terza strategia riguarda, infine, la centralità della sofferenza: per il pessimista, ogni vivente soffre; è allora necessario abolire la sofferenza, o almeno denunciarla senza posa e senza mai arretrare di un passo. Storicamente ‒ proprio in virtù di tali strategie argomentative ‒ il pessimismo è stato fin dagli inizi del pensiero filosofico e poetico un valido alleato del pensiero ecologista e antispecista.
Senz’ombra di dubbio, il pessimismo non è mai stato “popolare”. Questa impopolarità, tuttavia, ha permesso al pessimismo di mescolare la propria visione negativa del mondo alla radicalità delle sue proposte pratiche ‒ tra le quali figurano, fin da tempi remoti, l’estinzione umana, il raggiungimento del Nirvana, il vegetarismo universale e, non ultimo, il suicidio programmatico. Se, prima dell’epoca moderna, il pessimismo era impraticabile, ciò era dovuto non solo alla sua disperazione concettuale, ma anche, e forse soprattutto, alla sua postura radicale nei confronti della vita non umana.
I veri problemi del pessimismo cominciano in epoca moderna, con l’affermarsi dell’umanismo, dello storicismo, del pensiero utopico e di quello rivoluzionario. Gli ultimi pessimisti e nichilisti anarchici (come nel caso di Renzo Novatore e Georges Palante) non sono che cigni neri nel grande stagno della storia. Con la vittoria della visione del mondo ottimista e progressista, un intero carattere ‒ un’intera tendenza spirituale nella sua totalità ‒ è stata espulsa dal dibattito politico. Non è un caso che il pessimismo, nella sua versione estinzionista, abbia rifatto capolino sotto forma di progetto razionale, universalista e per certi versi “ottimista” (giacché programmatico), pur conservando i tipici tratti ridicoli e iperbolici della tradizione pessimista: «L’umano deve estinguersi! Ogni nostro sforzo deve essere orientato a tale obiettivo, senza che si dabba far in alcun modo ricorso all’autorità o alla violenza». Si, certo, come no, un’idea così affascinante che la gente fa la fila per saperne di più ‒ senza contare l’estrema irrealizzabilità pratica di un simile progetto…o di qualsiasi altro progetto di decrescita della popolazione.
È tipico della modernità dover arrossire nel pronunciare termini quali anima, spirito, sostanza, angelo, demone, magia” e via dicendo ‒ lo è altrettanto l’obbligo di dover guadagnare rispettabilità accademica, politica e letteraria, donando veste razionale e analitica ai propri scritti e alle proprie idee (come nel caso di Benatar). Ne va della spendibilità di un argomento. Tale atteggiamento ‒ oltre a essere spiccatamente escludente, eurocentrico e acritico ‒ è, al tempo stesso, ingenuo. Ciò che il “buon senso” occulta è il fondamento razionale di ogni argomentazione e di ogni comportamento (come dimostrano, ad esempio, i Saggi sulla Bilogica di Matte Blanco, la Fenomenologia dello Spirito di Hegel o, più semplicemente, il fatto che la nostra specie sia sopravvissuta nel tempo), ma anche la presenza di una componente “trans-razionale” (esemplificata, come direbbe Wittgenstein, dal fatto che, a volte, baciamo le foto dei nostri cari o che decidiamo dove vada posta una finestra, pur non possedendo alcuna certezza logica o scientifica sul posizionamento delle finestre). Asserire che tutto quel che sfugge al centro di gravità dell’azione politica e della ricerca scientifica ufficiale sia “irrazionale”, significa semplicemente voler ignorare che tali costrutti, in altri tempi e in altri luoghi, non sono affatto esistiti, o che non hanno o non abbiano avuto valore egemonico.
In quest’epoca di alta modernità, il pessimismo ha fatto nuovamente irruzione all’interno dell’orizzonte filosofico, portando i suoi “doni fatali” ‒ nel duplice senso di uno scherzo del fato e di un contatto “contaminante”, potenzialmente mortifero. Con uno scatto nervoso, esso ci restituisce tutti i problemi di cui ci siamo sbarazzati nel corso della modernità: l’idea che il pianeta possa “star meglio” senza di noi (MacCormack, Zapffe, Benatar); l’idea che le colpe della catastrofe ecologica possano essere talmente distribuite da oltrepassare l’epoca capitalista, fino raggiungere i nostri antenati ‒ lungo la cosiddetta linea “agrilogistica” (Morton); l’idea che il mondo possa esserci indifferente, se non addirittura oscuramente avverso (Thacker, Ward); l’idea che non vi sia via di scampo dal disastro (Scranton, Land); l’idea che vi sia una natura umana e che sia irrimediabilmente corrotta o irrecuperabile (Ligotti). Un inaudito scuotimento delle nostre più assolute certezze o, forse (volendo minimizzare con una risatina o un ghigno sprezzante), un subdolo bastone tra le ruote del progresso. Tutto questo sfacelo a causa del pessimo carattere di qualche individuo isolato! Per di più da parte di una corrente filosofica disomogenea, detestata o quantomeno ignorata da tutt*, reputata alla stregua di un fenomeno da baraccone filosofico! Quale oltraggio nei confronti dell’azione politica.
Sorge allora spontanea una domanda: che fare? Che tipo di responsabilità dovrebbe assumersi il pessimista e in che misura? A che genere di quarantena mi dovrei sottoporre per non ferire me stesso e gli altri? Credo che il miglior protocollo possa consistere in un sano scettiscismo (in particolar modo autoriferito) e in una costante operazione di critica. Se non è di alcun aiuto all’azione politica e al tono generale dell’umore, il pessimismo, tuttavia, può offrire alcuni spunti al pensiero in quanto tale (quel pensiero che, nell’automa spirituale, può, per una buona volta, non essere immediatamente seguito dall’azione). L’estinzionismo, la teologia weird, il fatalismo, l’inumanismo, il nichilismo e via dicendo, ci pongono di fronte a dei vuoti, a delle mostruosità epistemiche e ontologiche, a delle assurdità, a dei paradossi, a delle certezze apparentemente monolitiche (come nel caso del determinismo forte). Nell’affrontare nani, draghi e giganti di questo genere ‒ nell’ergersi su di essi o nel farsi da essi travolgere ‒ la teoria espleta la propria principale funzione: quella di narrare, analizzare e aprire varchi nella fitta coltre di nebbia della realtà, di sbirciare tra i labirinti delle possibilità riportando al campo base, qualora sia possibile, strumenti atti alla prosecuzione dell’esplorazione. È mio parere che, in questa impresa, anche il carattere pessimista possa offrire preziosi contributi. Persino il fatalismo climatico, il più perverso e ambiguo discendente del pessimismo filosofico, è capace di ridestare miriadi di problemi, attraverso l’interrogativo: «Come imparare a sopravvivere e a morire nel bel mezzo della catastrofe?».
Lascerei, infine, la parola al pensatore anarchico Alejandro de Acosta, che nel suo Green Nihilism or Cosmic Pessimism scrive, a proposto del pessimismo cosmico:
Bhe, qualcuno potrebbe asserire che non ho fatto altro che importare una teoria aliena all’interno di una discussione altrimente familiare (se non addirittura semplice). L’ho fatto, eccome. Il mio obiettivo, tuttavia, non consiste nel sottoscriverla […]. Nostro scopo non è affermare il pessimismo cosmico (o qualsivoglia altra teoria; non è questo il valore o il senso della teoria); nostro scopo è pensare, continuare a dibattere del caos senza essere così stupidi da credere di essere dalla sua parte. Non vi è alcuna parte. Potremmo così realizzare che anche noi, lungo i nostri tentativi di riunirci, organizzarci, agire, mutare forma di vita e via dicendo, stavamo agendo nel mondo ‒ ignoranti del Pianeta e delle sue inimmaginabili stranezze3.
1 Donna Haraway, Chthulucene, trad. it. ci C. Durastanti e C. Ciccioni, Nero, Roma 2019.
2 Roy Scranton, Learning to Die in the Anthropocene, City Lights Books, San Francisco 2015, p. 49, traduzione mia.
3 Alejandro de Acosta, «Green Nihilism or Cosmic Pessimism», in «The Anvil Review», 20 novembre 2013, traduzione mia, https://theanvilreview.org/print/green-nihilism-or-cosmic-pessimism/.