LA LINEA D’OMBRA

“D’autres fois, calme plat, grand miroir e mon désespoir”
Charles Baudelaire

Che il tempo presente appaia come un spaventosa bonaccia, almeno a quanti abbiano vissuto con gioia i seppur modesti passaggi di venti degli ultimi anni, è cosa fuori di dubbio. A guardarsi attorno poi sembra davvero di trovarsi su di una nave spinta alla deriva da una forza inerziale, su cui si muovono figure quasi moribonde.

Come si è arrivati fin qui? Quale zavorra ci portiamo dietro? Verso quali porti ci stiamo muovendo?

Non si può certo parlare di grandi tempeste perfette a guardarsi un poco indietro, ma certo qualcosa c’è stato. Le mobilitazioni contro il treno ad alta velocità in Val di Susa hanno conosciuto tra l’estate del 2011 e l’inverno del 2014 livelli di conflittualità notevoli in intensità ed estensione. La Libera Repubblica della Maddalena, la bandiera no tav che appariva ad ogni corteo in giro per l’Italia, i sabotaggi, le imponenti e continue manifestazioni contro l’avanzare dei lavori e contro le accuse di terrorismo. Tutti momenti che hanno palesato una posta in gioco che andava molto al di là di un treno e di una singola valle. Una posta che si è avvertita con forza anche ad Asti dove sono state numerose le iniziative a favore della lotta no tav, anche e soprattutto in risposta alle strette repressive.

Tali iniziative, in particolare nella nostra città, hanno avuto un sfondo di primissimo piano: l’esperienza delle occupazioni abitative. Un movimento che ad Asti si affaccia, dopo una non breve gestazione, il 10 aprile del 2010, quando la palazzina di Via Allende viene occupata da sei famiglie sotto sfratto.

Nel giro di 3 anni saranno quattro le occupazioni e senza sosta si susseguiranno contrasti di sfratti e iniziative pubbliche di vario genere. In mezzo a tutto questo la nascita del collettivo dell’ex-mutua occupata, nell’ex-casa dei metallurgici di Via Orfanotrofio, ha rappresentato uno dei momenti più interessanti di lotta cittadina degli ultimi anni.

In tale luogo l’incontro di una pluralità di bisogni e di desideri molto eterogenei tra loro, ha saputo dare vita a una grande quantità di momenti di resistenza, di gioia e di controinformazione. Nonostante le numerose difficoltà incontrate lungo il percorso tale realtà ha saputo innescare, nei fatti e fin da subito, una critica radicale tanto della petizione e dell’assistenzialismo come mezzo di soddisfazione delle proprie esigenze domiciliari, quanto del consumo e del profitto come logiche alla base della liberazione della propria creatività.

Tale spazio ha saputo, seppur per poco e con tutte le contraddizioni di cui è costellata quell’insieme incongruo di eventi che è la vita umana, aprire un varco in una città sorda e appiattita su se stessa. Una città in cui da molto tempo ormai “si sono perduti sia i rapporti naturali della vecchia campagna sia i rapporti sociali diretti e direttamente messi in questione della città storica”.

Quello spiraglio si è oggi chiuso, insieme a tutte quelle piccolissime crepe, quegli interstizi appena visibili che sembravano essersi aperti.

Tutto questo è accaduto per una coincidenza di fattori tanto esogeni quanto endogeni. Se il mal comune rappresentasse una mezza felicità ci si potrebbe consolare, senza dire il falso, affermando che tale situazione è parte di uno scenario nazionale molto più ampio. Un’analisi di tale portata non può però trovare spazio in un articolo come questo e perciò ci limiteremo a una breve serie di considerazioni che provengono dalle esperienze di lotta sopra citate, circoscritte alla realtà astigiana.

La serie di problemi che ci sembra vitale affrontare a tale riguardo è quella legata ai temi della delega, dell’azione diretta e della costruzione di reti di solidarietà.

Il movimento di lotta per la casa è stato capace di dare risposte immediate e concrete ai problemi di numerose famiglie sotto sfratto. Ed è stato in grado di farlo spingendo tali soggetti a forme di protagonismo e a pratiche di mutuo appoggio che non sono in alcun modo da sminuire. Tuttavia tale insieme di lotte è andato in contro a una serie di difficoltà che non è possibile tacere.

Una buona parte delle famiglie occupanti ha partecipato a questo percorso senza uscire, nel medio-lungo termine, dalla logica assistenziale di petizione e di delega, che pure era stata messa in crisi nelle iniziali azioni di contrasto e di occupazione.

Cosa non ha funzionato? Con buona probabilità non è possibile dare una risposta univoca a tale quesito ma noi, con tutta la sfacciataggine che è necessario sfoderare per uscire da situazioni di totale impasse come questa, ci proveremo.

L’azione diretta, qualora segua a una petizione istituzionale, ha di certo il merito di mostrare chiaramente alla popolazione l’inefficienza delle istituzioni e la possibilità di dare risposte concrete attraverso l’autogestione. Tuttavia la reiterazione di tale strategia rischia di trasformare quelle azioni di lotta concrete in meri atti simbolici volti solamente a richiamare l’attenzione di chi, dall’alto, dovrà poi prendere in mano la situazione. Il rischio è cioè che i soggetti implicati in tale lotta considerino le occupazioni come delle soluzioni provvisorie a un problema a cui qualcun altro (il Comune per il tramite dei compagni) dovrà poi dare una soluzione. Ci si trasforma così in assistenti sociali e amministratori condominiali senza compenso, chiamati a risolvere problemi che in tali contesti non possono trovare una soluzione se non attraverso percorsi di responsabilizzazione individuali.

Le istituzioni sono pienamente disposte a delegare tale ruolo, e possono tollerare una certa soglia di illegalità senza troppi problemi. Da molto tempo infatti il ragionamento che guida gli apparati istituzionali non è più quello della mera applicazione del diritto (occupi una casa, ti sgombero), ma quello della considerazione economica dei vantaggi e dei rischi delle proprie operazioni, specialmente se si tratta di repressione. In questo modo ad Asti sono sempre stati evitati, almeno per quel che riguarda le occupazioni abitative, gesti plateali di esibizione muscolare. Si sono invece preferite lunghe trattative individualizzanti, inserite alle volte in progetti di social housing, volte a spezzare il fronte unico di lotta e a tenere tutto quanto lontano il più possibile dagli sguardi della città. Cosa che sarebbe stata impossibile fare nel caso di sgomberi attuati con la forza pubblica.

Per evitare di sfinire le proprie energie in un ruolo di assistenza a situazioni di cui l’istituzione non è più in grado di farsi carico (se non in modo parziale e in tempi lunghissimi), bisogna che la lotta faccia un salto qualitativo. E tale salto, questa è la nostra sfacciata convinzione, non può avvenire senza un percorso in cui fin dall’inizio i mezzi siano coerenti con i fini. Se si vuole diffondere l’autogestione non si può praticare la delega e la petizione. È necessario esautorare fin da subito tutte quelle pratiche istituzionali che spingono gli individui alla mancata presa di responsabilità sulla propria vita. Pena la trasformazione della propria lotta in una forma radicale di assistenzialismo.  

La possibilità di accedere a un tale livello di messa in discussione dell’esistente è balenata per un momento ma ora l’orizzonte è di nuovo chiuso. E serve, ora più che mai, caparbietà e non disperazione. Servono, per oltrepassare la linea d’ombra, dei Ransome e non dei Burns.

L’attesa del vento sarà lunga, ma bisogna impiegare questo tempo per liberarci di tutte le zavorre e per trovare un luogo dove mantenere asciutte le polveri. In attesa della tempesta che verrà. L’alternativa è la prosecuzione febbricitante di quella catastrofe continua di cui si alimenta la bonaccia del presente.

W.

CDL FELIX